giovedì 9 aprile 2015

Il Diritto a Comunicare - una presentazione

Esiste un concetto giuridico, che fin dalla sua nascita formale, pur fondamentale per la società civile, è sempre stato ignorato e disatteso da tutti, il Diritto a Comunicare. L'aver negato la sua applicazione concreta nelle leggi degli stati, è forse il parametro più evidente della odierna barbarie comunicativa.  

Il Diritto a Comunicare costituisce implicitamente parte integrante e presupposto della Dichiarazione  Universale dei Diritti Umani, dal momento che, nelle società moderne non esiste di fatto diritto che non venga prima "comunicato ", cioè rivendicato pubblicamente.

Di fatto l'averlo ignorato sistematicamente e deliberatamente, addirittura molti non ne hanno mai sentito parlare, costituisce la migliore dimostrazione della sua fondamentale necessità in un momento in cui ci troviamo di nuovo a dover combattere per la tutela dei diritti elementari dei popoli e degli individui.

I diritti umani, simbolo di resistenza e di forza morale contro ideologie culturali oppressive, devono includere esplicitamente il Diritto alla Comunicazione, espressione di un riferimento morale e legale per proteggere lo spazio di libertà umana dinanzi alle forme di asservimento praticate dalle politiche economiche neoliberali oligarchiche, che determinano l'invasione di sistemi di comunicazione controllati centralmente o comunque regolati dalle logiche del profitto commerciale. Lo spazio pubblico e anche e soprattutto comunicazione pubblica; regole, limitazioni, garanzie, tutele, sono necessari per impedire l'asservimento mentale e culturale di un popolo alla legge del più forte.

Il concetto di Diritto alla Comunicazione è comunque rintracciabile nella Dichiarazione Universale del 1948 laddove nell'articolo 19 si parla dei media:

"Tutti hanno diritto alla libertà di opinione e di espressione; tale diritto comprende la libertà di avere opinioni proprie senza interferenze esterne, e di cercare, ricevere e dare informazioni e idee tramite qualsiasi mezzo e aldilà delle frontiere."

Sono fondamentali anche gli articoli:
    •    18 (libertà di pensiero, coscienza e religione),
    •    13 (libertà di movimento)
    •    20 (libertà di riunirsi e associarsi pacificamente).

L'UNESCO ha sancito nel 1984 il Diritto a Comunicare nell'ambito di un ampio progetto per un Nuovo Ordine Comunicativo. Il Diritto a Comunicare era stato introdotto già nel 1978 dal Rapporto della Commissione Internazionale per lo studio dei problemi della comunicazione, promosso dall’Unesco stesso, meglio noto come Rapporto MacBride, dal nome del presidente della Commissione, Sean MacBride, che in precedenza era stato ministro degli Affari Esteri della Repubblica d’Irlanda e insignito del Premio Nobel (1974) e del Premio Lenin (1977) per la Pace.

Il Rapporto MacBride trasforma la ‘libertà negativa’ in ‘libertà positiva’, ovvero il diritto di conoscere, di far conoscere e di discutere. Certo! Perché anche la tutela di spazi comunitari, scuole, biblioteche, teatri, ove poter incontrarsi liberamente e gratuitamente rappresenta una delle risorse vitali non negabili delle persone, al pari della tutela dell'acqua pubblica. Significativamente, il diritto alla comunicazione è descritto nel capitolo sulla Democratizzazione della Comunicazione come elemento essenziale per la trasformazione dei sistemi di comunicazione pubblica e la tutela degli spazi culturali in senso antropologico.

Il Rapporto MacBride sottolinea che il Diritto alla Comunicazione:

 "supera quello di ricevere la comunicazione o di essere informato. La comunicazione è  considerata come un processo bidirezionale i cui agenti – individuali e collettivi – intrattengono un dialogo democratico ed equilibrato".

In pratica si tratta di una critica radicale del concetto di libertà di informazione, vantaggioso solo per quei pochi abbastanza potenti per poterne usufruire. La parola "libertà" ha un significato astratto, non misurabile, che viene usata spesso da chi vuole toglierla ai più, facendosene scudo. Il termine "diritto" ha invece un significato preciso, misurabile ed esigibile, come è stato verificato ai tempi delle lotte sociali e sindacali. Il grado di libertà o di democrazia non è un assoluto, ma il prodotto storico della sua evoluzione sociale, politica e culturale, sintetizzato nella sua costituzione formale e nel suo aspetto politico concreto. Perciò si deve parlare correttamente di democrazia popolare, borghese, costituzionale o socialista. La democrazia senza aggettivi, non storicizzata, è un falso storico ed una ipocrisia. Eppure ancora oggi giornalisti e politici eludono la questione, coniugando le parole "libertà", "informazione" e "comunicazione" in tutti i modi possibile tranne quello di combinare il "diritto a Comunicare". Cos'è, distrazione? Noncuranza terminologica? O piuttosto è la scelta di quanti temono la fine del doppio monopolio anticostituzionale: dei giornalisti sulla informazione e dei leader di partito sulla politica.

La moltiplicazione del numero dei programmi radiotelevisivi non è indice, di per sé, di maggiore democrazia o di pluralismo, se i soggetti che li trasmettono sono pochi ed omologhi. In realtà si produce un bombardamento informativo di idee unilaterali che determina un degrado di qualità contenutistica da parte dei forti sui deboli. Quest'ultimi non hanno risorse sufficienti per sostenere i costi di un bilanciamento comunicativo. Questo è vero sia a livello degli individui singoli che di singoli paesi. Assistiamo così ad una rottura unilaterale della sovranità nazionale, sulla quale ancora si basa, almeno a livello formale, il diritto internazionale. In Italia ne abbiamo verificato tutte le conseguenze con l'importazione di modelli culturali originariamente a noi estranei. 

L’UNESCO dimostrava già dal 1984 che il Diritto A Comunicare poteva essere concretamente praticato, grazie allo sviluppo delle tecnologie comunicative.  Denunciando l'inadeguatezza e l'ambiguità del concetto di "libertà di informazione" si metteva in evidenza i fenomeni di privatizzazione, colonizzazione culturale, mercificazione, disinformazione ai danni della maggioranza delle nazioni e dei popoli della terra. Non a caso il sostegno, da parte degli Usa e dei governi più forti e ricchi, alla "free flow of information", correlata alla "deregulation", nascondeva l'intenzione di inondare il mondo intero con i loro messaggi senza alcuna condizione di reciprocità e di scambio equilibrato.

L’intero impianto della Costituzione Italiana, pur concepita quando informazione e comunicazione non avevano l’impatto odierno, è perfettamente idoneo a realizzare il Diritto A Comunicare dei cittadini e delle loro formazioni sociali, non solo partitiche. Tale diritto è definito sia in senso attivo, come diritto a comunicare, come per esempio nell'art. 21, sia in senso passivo, come diritto ad essere informati in senso completo e corretto. Ciò risulta impraticabile quando una o più fonti vengono impedite dal comunicare in modo attivo.

Ma in Italia l'elaborazione del dettato costituzionale in questa materia complessa è stato portato molto avanti grazie al lavoro poderoso dell'ing. Enrico Giardino, ex dirigente Rai, attivo sindacalista e accanito difensore del Diritto a Comunicare, impegnato da decenni nella democratizzazione dei sistemi di conoscenza e di telecomunicazione. Giardino nel 1990 è stato il fondatore e responsabile del Forum DAC (diritto a comunicare), un'aggregazione nazionale inter-associativa per la tutela e il rilancio dei diritti comunicativi.

domenica 5 aprile 2015

Libera comunicazione nelle Costituzioni moderne

La storia:

La comunicazione non aveva libera cittadinanza nei regimi assoluti e, insieme alla crescita della coscienza pubblica, è stato lo sviluppo dei mezzi di comunicazione a porre ai governi il problema di stabilire delle regole. (Censura)

Possiamo dire che la Chiesa gerarchica è stata in questo ‘maestra’ e non sempre ‘madre’, pur con tutte le concessioni dovute allo spirito dei tempi (Chiesa e comunicazione). Repressione, censura e licenza (imprimatur) sono stati gli strumenti per regolare la comunicazione.

L’Inquisizione, istituita dal Papa Lucio III nel 1184 ha esercitato un rigido controllo repressivo sulla comunicazione ogni qualvolta questa intaccava o sembrava intaccasse l’ortodossia. In particolare, l’Inquisizione spagnola creata da Sisto IV su istanza dei Re cattolici nel 1478, aveva fra le sue competenze, quella di
"impedire la stampa di libri condannabili, perseguire le opere sospette, spurgarle e stabilire un catalogo delle stesse, per mettere in guardia i fedeli contro la loro lettura". 
Su questa scia, Paolo IV nel 1557 istituì il primo Indice ufficiale dei libri proibiti (giudicato eccessivamente ‘severo’, venne rivisto e promulgato da Pio IV nel 1564); nel 1571 Pio V diede vita alla Sacra Congregazione dell’Indice.

Ciò non impedì che nello stesso ambito cattolico si levassero voci che riconoscevano il valore stimolante della libertà di comunicare fatti, pensieri, opinioni: basti per tutti ricordare la figura di Erasmo da Rotterdam (1466-1536).

Ma è soprattutto la cultura laica, con lo sviluppo dell’Illuminismo nella seconda metà del sec. XVIII, a porre con forza, nei confronti così della Chiesa come dello Stato assoluto (in questo allora strettamente alleati), l’esigenza della libertà di comunicazione.

Fino a che le rivoluzioni moderne per eccellenza, quella americana e quella francese, formularono nelle rispettive Costituzioni il diritto alla comunicazione libera (allora circoscritto per ovvie ragioni alla parola e alla stampa), come pilastri della convivenza pubblica.


Le moderne Costituzioni:

La Dichiarazione dei diritti del popolo della Virginia, del 1776, proclamava
"la libertà di stampa uno dei grandi baluardi della libertà" 
Il Primo emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti stabilisce che
"Il Congresso non delibererà alcuna legge... per la quale... si limiti la libertà di parola o di stampa".
Analogamente la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino premessa alla Costituzione repubblicana della Francia rivoluzionaria nel 1789, affermava che :
"la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo".
Sotto questo aspetto, la storia dei due secoli che ci separano dagli avvenimenti rivoluzionari è caratterizzata dalle controversie e dalle battaglie fra le concezioni liberali e le riserve dei regimi assoluti sopravvissuti dopo la restaurazione post-napoleonica.

La scintilla che condannò definitivamente la monarchia borbonica nel luglio del 1830, furono le ‘ordinanze’ di Carlo X contro la libertà di stampa. E questa libertà fu uno dei cardini delle rivendicazioni delle rivoluzioni che infiammarono l’Europa nel 1848.

Via via, la libertà si veniva affermando ammettendo solamente i limiti riferiti all’ordine pubblico e alla morale, limiti di cui i governi usavano o abusavano, a seconda delle condizioni di forza nel momento dato, interpretandoli più o meno estensivamente.

In Italia, lo Statuto Albertino recitava:
"La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi". 
E ancora sanciva che i libri di pertinenza ecclesiastica (Bibbie, catechismi, libri liturgici e di devozione) dovevano recare il permesso del Vescovo.

Il regime fascista non ha formalmente abolito lo Statuto, ma ne ha di fatto radicalmente alterato la sostanza, abusando della repressione e della censura, istituendo forme di intervento diretto con le ‘veline’ del Ministero della Cultura popolare, cui i giornali dovevano attenersi nella cronaca politica.

La libertà è stata ripristinata solo con la Costituzione repubblicana del 1946.


Libertà e Comunicazione

Libertà e comunicazione nella sfera pubblica rappresentano, a partire dal sec. XVIII, due momenti interconnessi dello sviluppo delle società umane.

L’affermazione della libertà nei confronti del potere ha avuto come strumento principe, se non unico, proprio i mezzi di comunicazione e conseguentemente lo sforzo di conquistare e sancire positivamente, nel diritto, le relative libertà:

la libertà di manifestazione del pensiero, 
la libertà di stampa, 
la libertà di informazione

(Per riconoscere il limite che si è in seguito manifestato da questo approccio alla definizione giuridica esatta del rapporto fra libertà e comunicazione, basta chiedersi: libertà per chi? . n.d.r.)

In pari tempo lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, dalla comunicazione orale alle odierne autostrade elettroniche, ha fatto intravedere, almeno in via di principio, la possibilità che la generalità dei cittadini partecipasse della comunicazione e contribuisse alla formazione e al controllo del potere, facendo della comunicazione stessa lo strumento che in qualche modo manifesta e garantisce tutte le libertà pubbliche.

La libera comunicazione sembra oggi, più delle stesse forme istituzionali, il segno efficace della democrazia (Politica e informazione; Potere e comunicazione).

Il rapporto fra libertà e comunicazione si afferma dapprima come autonomia, si sviluppa come esigenza di partecipazione e finalmente come diritto-credito dei cittadini e delle comunità: senza che sia possibile una distinzione netta, né in senso storico, né in senso teorico, fra i tre momenti e i tre obiettivi cui tende la libera comunicazione.

Nell’ambito più strettamente giuridico si afferma costantemente l’esigenza delle garanzie che rappresentano lo statuto effettivo della libertà. Alle garanzie appartengono, da un lato, le condizioni sociali, culturali, economiche della società nel momento dato e, dall’altro, le leggi che supportano le libertà e ne consentono la difesa giudiziale, nonché le regole di autodisciplina rappresentate dai codici di comportamento, dai difensori civici, da organismi di garanti che in alcuni giornali dà voce ai lettori.

Autore: Piero PRATESI 

La sfida alla concezione liberale e individualistica della persona

Il diritto alla comunicazione si è diffuso dopo che il modello individualistico liberale della comunicazione pubblica, proposto come miglior fondamento della democrazia, ha lasciato le società moderne senza una base per il raggiungimento di un reale consenso morale.

L’idea di democrazia come sfera pubblica deliberativa e società civile entra in crisi. Secondo il modello liberale del compromesso pragmatico, i valori personali devono appartenere solo alla sfera privata e la base della sfera pubblica deve essere una razionalità strumentale e a-valoriale.

Il risultato è ciò che Habermas chiama "la colonizzazione della sfera della vita" da parte di una società basata sulla razionalità organizzativa.

Situazioni ancora peggiori si sono verificate dove gli individui, in un contesto privo di valori pubblici, hanno abbandonato i valori personali e si sono affidati a ideologie come l’utopia comunista o il nazionalsocialismo.

Le filosofie comunitarie della comunicazione suggeriscono, invece, che la base della comunicazione non è semplicemente la coscienza individuale, la consapevolezza della propria opinione personale con l’attenzione all’opinione limitata alla sfera pubblica.

La base della comunicazione sta piuttosto nel dialogo e nel diritto che ciascuno di noi ha, come persona, di partecipare al dialogo con gli altri. Infatti, non abbiamo solo il diritto alla libera espressione personale, ma anche quello di far sì che la nostra opinione venga ascoltata e discussa. Il diritto alla comunicazione implica il diritto al dialogo e una certa condivisione di significato.

È da questo fondamento filosofico che deriva la concezione della comunicazione non tanto come trasporto lineare dell’informazione dall’emittente al ricevente (senza un dialogo tra i due), quanto come modello di condivisione della comunicazione interpersonale, o ancora come rituale o modello della comunione, come proposto da James Carey.

Ciò suggerisce che la sfera pubblica ha una natura dialogica e non è semplicemente un contratto sociale pragmatico nel quale gli individui si aiutano reciprocamente per raggiungere i loro obiettivi personali.

La democrazia non è semplicemente un patto sociale, ma un dialogo morale nel quale ciascuno di noi riconosce e sostiene i valori culturali degli altri.

 ( Comunicazione e sviluppo; Diritto e comunicazione. A. Diritto della comunicazione; Economia politica dei media; Politica e informazione;Tazebao)


Autore: Robert WHITE

La crescita di una cultura del ‘diritto alla comunicazione’

Sin dall’inizio della rivoluzione industriale sono nati movimenti per una democrazia di base, diretta alternativa sia all’organizzazione formale del capitalismo, sia ai modelli di sviluppo statalizzati del socialismo

Negli anni sono cresciuti movimenti come le cooperative, le organizzazioni dei contadini e degli operai, i movimenti giovanili, le comunità locali e tutta una serie di altri modelli, accompagnati dallo sviluppo di valori come la partecipazione, il dialogo, la leadership non autoritaria, la libera espressione personale. 

L’introduzione di questi modelli di organizzazione nei Paesi in via di sviluppo come alternativa all’idea di una modernizzazione basata su un tipo di organizzazione economica fortemente centralizzata e pianificata statalmente, ha portato alla nascita di un paradigma di sviluppo popolare che si è imposto come forma di resistenza ai governi repressivi e dittatoriali in America Latina, in Africa e in India. 

Figure carismatiche, come Paulo Freire in America Latina, il Mahatma Ghandi o Badal Sircar in India o ancora Julius Nyerere in Africa, sono divenuti i leader intellettuali di questi movimenti riuscendo a trasformarne la pratica in teorie dell’educazione, della comunicazione e dello sviluppo culturale. Da tutto questo è emersa una nuova cultura della comunicazione più dialogica e partecipativa.

Questi movimenti sarebbero rimasti un fenomeno dei Paesi del Sud del mondo o si sarebbero limitati a pochi gruppi alternativi se contemporaneamente non fosse entrata in crisi negli anni Sessanta, soprattutto tra i giovani, la concezione illuministica della modernizzazione.

La rivoluzione culturale condotta dai movimenti giovanili, da quelli per l’indipendenza regionale e per l’uguaglianza razziale e di genere, facendo propri molti dei simboli della comunicazione partecipativa e dialogica, sono riusciti a cambiare in maniera efficace la direzione della cultura mondiale.

I modelli lineari e razionali della comunicazione sono stati un po’ dovunque messi in discussione a favore di un modello di comunicazione dialogico, partecipativo e non autoritario. Questo è particolarmente evidente nel campo dell’educazione e delle organizzazioni religiose, nelle nuove forme di organizzazione industriale, nella famiglia e virtualmente in ogni istituzione culturale.

Il diritto alla comunicazione, e cioè il diritto alla libera espressione individuale, al dialogo e alla partecipazione, è così diventato parte essenziale dello sviluppo sociale e umano, anche se ciò ha sollevato una serie di questioni filosofiche oltre che politiche.

Autore: Robert WHITE
 

La democratizzazione della comunicazione: una questione politica

Il movimento politico nato, su iniziativa dei Paesi meno sviluppati sul piano economico e informativo, per introdurre un "Nuovo Ordine Mondiale dell’Informazione e della Comunicazione" (NWICO, New World Information and Communication Order), nonostante i grandi consensi raccolti attorno alle questioni riguardanti il diritto alla comunicazione, ha raggiunto scarsi risultati concreti. Parte del problema risiede nel fatto che il dibattito sul NWICO si è svolto prevalentemente attorno a due proposte centrali che spesso nascono da intenzioni contrastanti

  • la difesa della sovranità nazionale 

  • la democratizzazione della comunicazione

I movimenti postbellici, promossi da molte ex colonie per ottenere l’indipendenza, avevano generato ovunque un’etica politica dell’autonomia locale, ma molte nuove nazioni scoprono presto che una reale autonomia politica può essere raggiunta solo con un maggiore controllo e una maggiore autonomia delle istituzioni economiche locali. Tuttavia ciò è possibile solo con il cambiamento delle abitudini culturali e per cambiare le abitudini culturali e raggiungere, anche qui, una maggiore autonomia occorre avere autonomia nel campo delle comunicazioni.

Pertanto molte nazioni si impegnano a introdurre delle leggi per limitare l’influenza delle agenzie di stampa e delle industrie culturali transnazionali, per accrescere il ruolo dei media governativi e per riorientare i media verso lo sviluppo e una maggiore solidarietà nazionale. Come i teorici della dipendenza sostengono, lo sviluppo può venire soltanto con il totale distacco dei sistemi economici locali dagli ex padroni coloniali.

Anche il movimento dei Paesi non allineati sostiene la posizione della sovranità nazionale nel campo della comunicazione, ma dice ben poco sulla democratizzazione. Infatti i Paesi in via di sviluppo hanno sì bisogno di assistenza dai Paesi industrializzati, ma in maniera tale da permettere loro una maggiore autonomia politica, economica e culturale; e cioè senza quella dipendenza politica che di solito accompagna gli aiuti stranieri unilaterali. E poiché i governi delle nazioni industrializzate sono impegnati a sostenere le loro industrie della comunicazione, ogni proposta di una politica esplicita per lo sviluppo della comunicazione nei singoli Paesi è destinata a incontrare non poche resistenze presso l’Onu e l’Unesco.

Per complicare ancora di più le cose, il blocco socialista adotta a un certo punto la causa della sovranità nazionale per proteggere i propri regimi autocratici, per cui molte nuove nazioni, guidate da un unico partito, appoggiano questa politica come base per costringere i diversi gruppi locali e tribali all’unità nazionale.

I Paesi capitalisti con governi liberali accusano immediatamente questo tipo di sovranità nazionale di essere solo una copertura per i regimi dittatoriali piuttosto che un sostegno alla democratizzazione della comunicazione e al diritto alla comunicazione. Pertanto, pur condividendo il bisogno di sradicare gli squilibri di comunicazione nel mondo, si impegnano a contrastare un NWICO inteso come copertura dell’espansione socialista, senza mai ammettere, però, che il loro reale interesse nei Paesi in via di sviluppo è di tipo economico.

Le pressioni politiche nei Paesi in via di sviluppo diventano intanto sempre più forti. Il processo di modernizzazione – per promuovere una rapida industrializzazione a costi bassi – in molti casi impone un duro lavoro ai contadini e agli operai . Ciò porta alla nascita di grandi movimenti popolari e alla richiesta di una democratizzazione diffusa, soprattutto nel campo della comunicazione.

Tali movimenti fondano le loro stazioni radiofoniche ‘alternative’, i loro giornali, teatri popolari, centri di informazione e altri media nella speranza di riunire un giorno tutte queste iniziative sotto l’egida di un unico governo realmente democratico. Queste alleanze popolari sono state le principali protagoniste nella diffusione mondiale della democratizzazione della comunicazione e della filosofia del diritto alla comunicazione.

Con l’introduzione dei media ‘partecipativi’ e delle reti di base (grassroot networking), esse hanno svolto un ruolo cruciale nell’instaurazione della democrazia politica in molti paesi dell’America Latina, del Sud Africa e dell’Europa dell’Est ( Comunicazione alternativa; Group media).

Tutti questi problemi politici vengono alla luce durante i dibattiti della XIX Assemblea Generale dell’Unesco tenuta a Nairobi nel 1976, alla fine della quale – e questo non sorprende – non fu raggiunta alcuna soluzione di compromesso. Per cercare di sciogliere il ghiaccio tra ‘Est’ e ‘Ovest’, l’Assemblea Generale chiede allora al Direttore Generale dell’Unesco di costituire una Commissione Internazionale per lo Studio dei Problemi della Comunicazione – meglio conosciuta come Commissione MacBride.

Il rapporto finale della Commissione dà però poco sostegno alla causa della sovranità nazionale (come i commenti del rappresentante sovietico mettono bene in chiaro) e appoggia invece la democratizzazione della comunicazione nel mondo.

Dopo la pubblicazione del Rapporto MacBride nel 1980, la segreteria generale dell’Unesco si rende conto che la priorità del suo mandato deve diventare quella di incoraggiare tale democratizzazione. Poiché ciò costituisce una minaccia politica sia per i Paesi socialisti sia per quelli capitalisti, i leader di entrambi gli schieramenti della guerra fredda sono per una volta d’accordo e immediatamente ritirano i loro rappresentanti dall’Unesco.

La democratizzazione della comunicazione come movimento politico e come politica legislativa viene così definitivamente messa a tacere e dopo i movimenti degli anni Settanta e Ottanta sono stati ben pochi i risultati raggiunti in questa direzione. Tuttavia, il dibattito sul diritto alla comunicazione rimane sempre importante, soprattutto nel campo socioculturale.

Autore: Robert WHITE

Nazioni Unite e dell’Unesco nella promozione del diritto alla comunicazione

Le Nazioni Unite hanno affidato all’Unesco il compito di monitorare lo stato di questi diritti nel mondo e di promuovere le condizioni perché essi vengano rispettati. I primi rapporti dell’Onu e dell’Unesco sulle condizioni dei media e della comunicazione nel mondo rivelavano l’esistenza di un grande squilibrio tra nuove e vecchie nazioni, tra paesi sviluppati e sottosviluppati. 

Il fatto che in molti Paesi le classi rurali, come i poveri delle città – in pratica la maggior parte della popolazione mondiale – non dispongano di radio, Tv, giornali, telefono, Internet... va assunto come un chiaro indice della mancanza di strutture che consentono la partecipazione alla vita culturale, politica e democratica del paese. Anche i dati raccolti di recente dall’Unesco e le centinaia di studi condotti in questi anni continuano a confermare che la maggior parte della popolazione mondiale non è nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alla comunicazione (Unesco 1999). 

Tali studi hanno altresì rivelato che la mancanza di partecipazione alla comunicazione, sia a livello della comunità locale sia a livello nazionale, non è dovuta tanto alla mancanza di risorse, quanto all’incapacità di fare un uso efficiente di tali risorse. Infatti, in passato, in molti Paesi la classe urbana media godeva di un pieno accesso alla comunicazione e partecipava ampiamente a tutta una serie di organizzazioni culturali e sociali che davano loro voce politica.

Buona parte del budget nazionale per la comunicazione e le strutture private andavano a vantaggio di una ristretta cerchia di persone. In molte nazioni emergenti le nuove élite governative, abituate a far parte dei governi coloniali, si limitavano ad adottare le posizioni dei vecchi padroni coloniali e continuavano a mantenere una struttura sociale, economica e politica che ancora comunicava con ‘l’esterno’ della nazione, e cioè con i centri politici, economici e culturali del nord, piuttosto che con 'l’interno’, e cioè con la popolazione indigena.

In molti casi le élite governative non erano semplicemente in grado, né avevano il tempo di riorganizzare la struttura governativa ed economica così da dare alle masse indigene l’opportunità di entrare nelle strutture comunicative della nazione. Insomma, la maggior parte delle nazioni non avevano predisposto politiche o piani di sviluppo delle condizioni necessarie a esercitare il diritto alla comunicazione.

In risposta all’esigenza di politiche nazionali della comunicazione, l’Unesco promuove allora, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, una serie di incontri con gli esperti locali di comunicazione e coinvolge gli studiosi e i ricercatori delle università nella formulazione di direttive politiche per lo sviluppo della comunicazione a livello continentale.

Tutto questo lavoro preliminare viene discusso nel corso di alcuni importanti incontri continentali tra i maggiori esperti mondiali di comunicazione nel tentativo di stabilire delle linee guida e delle priorità nelle politiche nazionali sulla comunicazione. In America Latina, la Conferenza Intergovernativa sulle politiche della comunicazione, promossa dall’Unesco, fu tenuta nel 1976; per l’Asia e l’Oceania nel 1979 a Kuala Lumpur, e per l’Africa a Abijan nel 1981.

Lo scopo di questi convegni internazionali era di fornire indicazioni di base nell’elaborazione di politiche destinate a portare nel mondo una maggiore equità nella comunicazione. Queste politiche, incoraggiate dall’Unesco e da altri organismi internazionali, hanno sollevato una serie di questioni fondamentali relative alle istituzioni economiche e politiche internazionali.

Autore: Robert WHITE